Sintesi storica

L’Italia è sempre stata un paese di migrazione, e gli italiani hanno sempre condotto uno stile di vita caratterizzato dalle mobilità, generato principalmente dalla lotta per la sopravvivenza e per il benessere. Per un periodo erano gli artisti a emigrare: pittori, scultori, architetti italiani hanno lasciato i segni del loro passaggio in tutta l’Europa. Accanto agli artisti, emigravano anche commercianti, missionari, navigatori, ingegneri, compagnie teatrali, saltimbanchi. I movimenti migratori sono stati perciò una parte fondamentale dell’economia e della società italiana, un modo per guadagnare più che nel paese natale, come dimostrano le associazioni dei costruttori dell’Evo Medio, quelle dei vetrai liguri o dei militari corsi, i migranti musicisti, le compagnie di attori della commedia dell’arte, i mosaicisti di Spilimbergo e molti altri.

Perciò, la migrazione sembra essere una delle caratteristiche peculiari del popolo italiano ed è sempre stata presente nella vita della Penisola Italica, anche se alle volte in modo limitato e occasionale. Tuttavia, nel corso del XIX secolo avviene un cambiamento: l’emigrazione prende dimensioni maggiori, comprendendo anche quella politica, quella rivolta all’America e quella stagionale, costituita soprattutto dai contadini del Nord che alle volte valicavano le Alpi in cerca di un lavoro. In questo modo, nel 1800, dopo una prima tappa incerta e con numerose interruzioni, il fenomeno della migrazione di massa degli italiani, diretto principalmente in America e poi, sempre più spesso, nell’Europa continentale, ha conosciuto una continua espansione.

Le cause di questi cambiamenti nel trend migratorio sono state legate dal fatto che, nel XIX secolo, l’Italia ha vissuto dei cambiamenti di grande portata in ambito economico, demografico e soprattutto politico, che hanno determinato crisi economiche; tra queste, la crisi agraria del periodo 1873-1879, accompagnata dell’incremento demografico registrato nelle zone rurali, ha avuto il contributo maggiore nell’avvio dei movimenti di massa della popolazione italiana, alla ricerca di nuove risorse economiche. I governi che si sono succeduti dopo l’unificazione dell’Italia, hanno avuto il difficile compito di stabilizzare un paese che si confrontava con un declino economico di gravi proporzioni. A Massimo d’Azeglio è attribuita l’espressione “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”, che trasmette in modo assai espressivo la realtà dell’epoca: l’Italia era unita dal punto di vista geografico e politico dal 1861, ma dal punto di vista culturale, delle tradizioni e dei dialetti parlati era ancora profondamente frammentata e diversificata. Le differenze non si limitavano agli aspetti culturali ma si estendevano anche a livello economico, generando grandi discrepanze tra determinate zone geografiche. Così, l’unità tanto voluta e attesa dall’élite politica italiana non ha portato con sé in modo automatico anche prosperità o una rapida risoluzione dei problemi specifici della società italiana. L’uniformazione di uno spazio così vasto ha richiesto considerevoli risorse finanziarie e adeguati sacrifici, e la grande crisi agraria nel 1880, determinata in parte dall’apparizione sul mercato del grano americano, prodotto a prezzi assai inferiori, non ha fatto altro che aggravare la situazione.

In questo modo nasce la grande migrazione italiana, fenomeno perdurato un secolo intero, dal 1876 al 1975, e che tra il 1876 e il 1920 (la prima e maggiore ondata) ha coinvolto circa 15 milioni di italiani, di cui 6,8 milioni sono emigrati verso altri paesi europei e il resto verso il continente americano, divenendo così uno dei maggiori esodi umani nell’epoca moderna e contemporanea. Ufficialmente, l’apparizione di questo fenomeno è individuata nel 1876, sebbene si tratti dell’anno in cui sono elaborate le prime statistiche ufficiali sulla migrazione italiana, più che dell’inizio effettivo delle partenze, che erano in realtà una naturale continuazione della tendenza migratoria del popolo italiano, assai accentuata dopo l’Unità del 1861. In assenza di statistiche ufficiali è però impossibile stimare il numero delle partenze tra il 1861 e il 1876.

Una serie d’inchieste parlamentari svolte durante la crisi agraria, in merito alla condizione in cui la popolazione rurale si ritrovava a vivere, ha permesso ai funzionari di giungere alla conclusione secondo cui la migrazione era funzionale e utile, poiché mezzo indispensabile di sopravvivenza. Tuttavia, delle leggi che regolassero questa potente ondata migratoria, sono apparse tardi: il primo tentativo risale appena il 30 dicembre del 1888, con la legge Crispi che in realtà decretava semplicemente la totale libertà di emigrare, sostenendo in questo modo le compagnie di trasporto marittimo perché lo facessero legalmente e, in sostanza, disciplinando dal punto di vista legale una realtà esistente de facto da molto. La prima vera legge sulla migrazione è apparsa solo nel 1901, quando è stato costituito anche il Commissariato Generale dell’Emigrazione, istituzione che si è occupata in una certa misura di tutelare, proteggere e guidare gli immigrati italiani negli anni seguenti.

La maggior parte degli immigrati italiani proveniva da situazioni economiche medie o molto difficili, tipiche dell’ambito rurale, sebbene potessero comunque permettersi di emigrare (i più poveri non avevano nemmeno i mezzi necessari per il viaggio e perciò non potevano partire), alcuni oltreoceano, altri in paesi europee vicini all’Italia e con l’intenzione di tornare a casa.

La Romania ha fatto parte dei paesi che hanno accolto i migranti italiani in quel periodo, poiché il contesto politico ed economico dell’epoca era favorevole. Mentre l’Italia attraversava una violenta crisi economica, la Romania viveva un periodo di stabilità politica e si rigoglio economico. In particolar modo, dopo la conquista dell’indipendenza nel 1877 e dello statuto di regno nel 1881, la monarchia e i governi romeni hanno compiuto considerevoli sforzi per modernizzare il paese ed elevarlo agli standard d’infrastrutture e d’architettura dell’Europa Occidentale. Sono stati inaugurati cantieri in tutto il paese ed è stata avviata la costruzione di ferrovie, strade, ponti e strutture moderne per ogni dove. Una tale mole di lavoro aveva bisogno di un’adeguata manodopera, tanto dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. La mancanza di specialisti autoctoni è stata compensata da una forza lavoro straniera, specializzata e qualificata, all’interno della quale erano compresi numerosi italiani. In questo modo, la Romania rispondeva al bisogno dei migranti italiani di trovare un lavoro ben pagato e una situazione economica migliore di quella lasciata nel paese d’origine, per di più simile all’Italia dal punto di vista geografico.

Sull’emigrazione degli italiani prima del 1800 si sa poco, però lungo gli anni essi furono segnalati alle corti principesche di Moldavia, Valacchia e Transilvania. Si trattava di viaggiatori, missionari, medici, avventurieri, architetti militari e civili, ingegneri, pittori, decoratori, musicisti, maestri di scherma, muratori, carpentieri, pietrai ecc.

I documenti storici attestano la loro presenza sul territorio attuale della Romania già dal XII secolo. Tra le prime colonie segnalate in Transilvania durante il regno di Geza II (1142-1162) si contavano, oltre ai valloni, anche gli italiani che si erano stabiliti a Varadino (l’odierna Oradea), dove avevano costruito i propri quartieri già prima del 1241, l’anno dell’invasione tartaro-mongola.

Nel XIII e XIV secolo le antiche fortezze greche sul Mar Nero diventarono colonie delle repubbliche marinare di Genova e Venezia, prima per accordo con i Bizantini e poi con gli Ottomani. Si trattava delle fortezze di Licostomo, Maurocastro o Moncastro e la fortezza danubiana Vicina.

Nel 1435 la Repubblica di Venezia aprì anche un Vice Consolato a Moncastro.

Dopo il 1300, furono segnalati architetti e maestri italiani, chiamati a costruire forti e fortezze.  Così, tra il 1307 e il 1315, le maestranze italiane costruirono a Timişoara un castello per il nuovo re d’Ungheria, Carlo Roberto d’Angiò. Iancu di Hunedoara, governatore della contea di Timiș e sovrano della Transilvania dal 1441, poi re dell’Ungheria tra il 1446 e il 1453, stabilì la sua residenza a Timişoara, e al posto dell’antico castello distrutto dal terremoto, ordinò l’edificazione di una dimora più grande, costruita secondo le tecniche del tempo e con l’aiuto di architetti italiani (sembra milanesi).

Altri architetti italiani citati dalla storia sono quelli giunti nel 1541 per costruire fortezze contro i turchi. La fortificazione delle città, dei castelli e delle chiese sul territorio romeno era un fatto d’importanza capitale. Anche Stefano il Grande ricorse agli architetti militari italiani per l’edificazione di cinta di mura lungo l’intero confine orientale della Moldavia, creando forti bastioni contro gli attacchi tartari e ottomani.

Già dal tempo di Matei Corvin e Gh. Zapolya, continuando poi con Bathory, Rackozy e Gabriele Bethlen, alle corti principesche transilvane lavoravano architetti e ingegneri militari e civili italiani.

Per esempio, le fortificazioni della città di Oradea furono rinforzate durante il regno di Bethlen (1613-1629) dal mantovano Giovanni Landi e dal veneziano Agostino Serena. L’architetto genovese Giacomo Resti costruì all’interno di quelle mura un palazzo pentagonale, con un chiostro interno in stile palesemente italiano. Oradea – in tutta l’Europa centrale – è la città meglio conservata, costruita in stile rinascimentale italiano.

Sempre Agostino Serena costruì anche il castello Banffy di Bontida (Cluj).

L’aspetto odierno della città di Alba Iulia è dovuto all’architetto Giovanni Morando Visconti, che ne ha condotto i lavori di costruzione tra il 1715-1735.

Tra i pittori che lavorarono alle corti principesche romene, sono da ricordare Masolino Panicale a Timișoara, Mina alla corte di Michele il Bravo e Giorgio Vernier alla corte di Nicolae Mavrogheni.

Musicisti italiani erano presenti alle corti principesche di Transilvania già dai tempi di Matei Corvin, tra i più noti: Giovanni Battista da Mosto e Giorgius Gyradi.

Nel XVII e XVIII secolo i documenti attestano la presenza di italiani alle corti valacche e moldave: medici, consiglieri, traduttori, segretari privati, maestri di scherma, guardie di confine, parrucchieri e così via.

Sebbene fin dal Medio Evo esistessero colonie commerciali genovesi e veneziane sulle sponde del Mar Nero, solo dopo il trattato di Adrianopoli del settembre 1829, che prevedeva una serie di misure riguardanti la libertà del commercio sul Danubio e nel Mar Nero, la navigazione delle imbarcazioni straniere sul Danubio è stata resa totalmente libera. Così, all’inizio del XIX secolo, la Romania era al secondo posto in Europa quanto alla percentuale di cittadini stranieri stabilitisi sul suo territorio. In quest’ambito, si è consolidata una presenza importante di commercianti a Brăila e Galați dove, dopo il 1815, sono aperte case commerciali per l’esportazione dei cereali. La lingua ufficiale del commercio all’epoca era la lingua italiana. E tuttavia, l’emigrazione degli italiani in Romania diventa ancora più consistente alla fine del XIX secolo, quando moltissimi italiani hanno contribuito allo sviluppo del nostro paese che, dal canto suo, viveva una vera e propria rivoluzione industriale. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, gli operai italiani sono stati impiegati nella costruzione di numerosi edifici a Bucarest, Vâlcea, Craiova, Turnu Severin, Târgu Jiu e in altre città.

Il periodo di maggior emigrazione degli italiani in Romania in epoca moderna riguarda soprattutto la seconda metà del XIX secolo, epoca in cui vennero riscoperte le grandi ricchezze del sottosuolo romeno (carbone, ferro, argento, oro e piombo) e gli austriaci, fortemente interessati al loro sfruttamento, crearono delle colonie in una parte della Transilvania con operai italiani: minatori, costruttori di rotaie e viadotti, tagliapietre, boscaioli ecc.

Con il lavoro minerario cominciò a svilupparsi anche il settore siderurgico e metallurgico, settori che richiedevano ancora manodopera qualificata. Così, una volta finito questo genere di lavori, gli italiani rimasero in quelle zone e i loro discendenti vivono a tutt’oggi nelle province di Caras-Severin a Oravita, Bocsa, Otelu Rosu, Caransebes, Zavoi, Glimboca, Resita ecc.

La crescente domanda di prodotti agricoli sul mercato europeo portò all’estensione dei campi coltivabili e all’introduzione di attrezzature agricole, cosicchè, a partire dal 1830, cominciarono ad affermarsi nuovi mestieri (agronomi, geometri, veterinari, meccanici ecc.). D’altra parte, sul territorio romeno, ad esempio nella regione dell’Oltenia, c’era tanta terra spopolata, per cui fu impiegata manodopera straniera.

COsì, dopo il 1830 (oppure, secondo altre fonti, dopo il 1860), italiani del Friuli-Venezia Giulia vennero a lavorare queste terre. Gli immigrati, contadini poveri, in buona parte analfabeti, si stabilirono nei dintorni della città di Craiova. Ancora oggi, alcuni dei loro discendenti sono identificabili nella zona. E tuttavia, di contadini ne arrivarono anche da altre province italiane, per stabilirsi in Moldavia e in riva al Danubio o al fiume Olt, ma anche a Târgovişte o Ploieşti.

Numerosi italiani provenienti dal Veneto-Pordenone, venivano in Romania a lavorare per la costruzione di ferrovie, terrapieni, ponti, murature, in silvicoltura, nelle cave di pietra, nelle miniere, incoraggiati da chi li aveva preceduti. Allo stesso modo, tra questi si contavano anche specialisti in diversi mestieri, artigiani, architetti, artisti e persone con studi superiori che ricoprivano diverse cariche nell’amministrazione pubblica, il che presupponeva lo svolgimento di lavori importanti. Così nel 1900 ritroviamo a Craiova gli imprenditori italiani, Olivero & Albertozzi, che chiedevano l’aiuto delle autorità centrali di Bucarest perché permettessero l’ingresso nel paese a un gruppo di operai italiani. Gli scalpellini italiani erano specialisti nel taglio e nella sagomatura della pietra. Ugualmente, alcune famiglie friulane si stabilirono a Craiova nel 1890.

Nel 1907, operai italiani sono stati condotti nella zona di Vâlcea, a Brezoi, per svolgere lavori di silvicoltura nella zona.

Dopo il 1877-1878, nella zona della Dobrugia, soprattutto a Iacobdeal, Calatoi, Turcoaia, Măcin e Greci, si sono stabiliti numerosi italiani di origine friulana, bellunese, veneziana, rodigina, specialisti nell’estrazione e nella lavorazione della pietra. A causa al gran numero di italiani stabilitisi qui, durante il periodo interbellico, giungevano spesso docenti dall’Italia per insegnare in lingua italiana nelle scuole esistenti, lì dove si studiava in quella lingua.

Nella zona di Iași riscontriamo la presenza d’italiani provenienti da Rovigo, Veneto, che intorno al 1879 furono condotti lì dal nobile Dimitrie Anghel perché lavorassero dei terreni che quest’ultimo si era impegnato ad affittare loro al posto di una casa. Si trattava di circa 100 famiglie italiane. La colonia agricola, unico esempio di questo tipo in Romania, è stata poi trasferita in Dobrugia, presso Cataloi.

Nella contea dell’Argeș, all’inizio del XIX secolo, si stabilirono numerosi italiani provenienti da Trento e Belluno, generalmente occupati in attività edilizie e che divennero importanti imprenditori e intagliatori di pietra.

Nella zona di Brașov, ritroviamo una comunità d’italiana stabilitisi intorno al 1850, bravi artigiani specializzati nella lavorazione di legno, pietra, calce e anche nell’agricoltura.

Nella zona di Vrancea, si riscontra la presenza di italiani provenienti dal bergamasco, emigrati intorno al 1890 e impegnati nell’ambito delle costruzioni, e trasferitisi lì dove si era stabilito anche il bisnonno Angelo Marenzo, nato a Pinzano di Tagliamento, emigrato a Bergamo, poi a Vienna e ancora a Râmnicu Sărat, nella contea di Putna. All’epoca, nella sua impresa di costruzione lavoravano operai di diverse nazionalità, bulgari, greci, rom, polacchi e anche molti italiani.

A Târgoviște, a 100 km da Bucarest, tra il 1887 e il 1897 si stabilirono italiani specializzati in costruzioni, pittori, commercianti, imprenditori, mosaicisti, che costituirono un’importante comunità. È possibile fare i nomi di famiglie come De Simon, un noto architetto, e costruttori come Zanissi, Fugalli e Zamollo.

Nella Zona di Hațeg, a Râu de Mori, incontriamo italiani provenienti da Udine, Friuli, e nomi come Di Gaspero, Benvenuto, Fontanella, Toniutti, Gonnano sono riscontrati nella storia della zona, come specialisti nella lavorazione del legno.

Sono esistiti tre tipi di migrazione: stagionale, temporanea e definitiva, ed è necessario menzionare come le prime due siano state predominanti dello spazio romeno – la maggior parte degli operai giungeva in Romania all’inizio della primavera, quando erano aperti i cantieri, e tornava in Italia con l’arrivo dell’autunno. Tuttavia, sono esistiti anche numerosi italiani che hanno scelto di stabilirsi definitivamente in Romania, di portare con loro le famiglie o di formarsene una qui e costruirsi una casa sul territorio romeno. E sono proprio i discendenti di questi ultimi a vivere tutt’oggi in Romania e a costituire il cuore dell’attuale minoranza italiana.

Nel 1940, quando la Romania si schierò con la Germania, buona parte degli italiani che avevano accumulato un po’ di fortuna rimpatriò. Molti, tra quanti rimasero a Bucarest, morirono durante i bombardamenti del 1944 e dopo la sovietizzazione della Romania, alcuni furono arrestati. A partire dal 1951, 40.000 italiani vennero rimpatriati forzatamente, in convogli di 100 persone, ogni 15 giorni. Ogni persona aveva diritto a portare con sé un’unica valigia con gli effetti personali, di 35 chili al massimo. L’oro era confiscato.

Chi rimase in Romania sopportò la chiusura delle scuole, delle chiese e delle case delle comunità, la confisca i passaporti e l’obbligo a rinunciare alla cittadinanza italiana. Per paura di rappresaglie, molti bruciarono tutti i documenti e gli scritti in italiano. In questo modo, in Romania rimasero solo gli italiani naturalizzati romeni. E la vita andò avanti. Gli italiani continuarono a fare quello che sapevano meglio fare: costruire, lavorare la terra, scrivere, fare musica, teatro o dipingere.

Perciò, tra i nostri contemporanei spiccano personalità di rilievo come Adrian Marino, Sorana Coroamă Stanca, Alexandru Pesamosca, Enrico Fanciotti, Horia Moculescu, Mişu Fotino, Dante Grechi, Angela Tomaselli, Mădălina Coracin, Mihaela Profiriu Mateescu-Culluri, Doina Florişteanu, Nicolae Girardi, Cristian Ţopescu, Mario Nardin e tanti altri.

Pertanto, la storia della minoranza italiana in Romania si svolge lungo un intervallo di oltre cent’anni, periodo in cui la Romania, un secolo dopo il regno di Re Carol I, viveva un periodo di prosperità economica e di modernizzazione. Naturalmente, come già menzionato, la modernizzazione non poteva essere realizzata senza manodopera qualifica in diversi ambiti, perciò i muratori stranieri, tra cui molti italiani, hanno trovato lavoro e, in fin dei conti, anche un senso nel nostro paese. In questo modo, quanti giunsero in Romania per lavoro, apportarono anche un contributo alla costruzione di ferrovie, ponti, reti fognarie, strade, palazzi amministrativi, ecc. Qui è possibile parlare di una migrazione economica, legata cioè allo sviluppo economico dello spazio carpato-danubiano-pontico.

Attualmente, secondo statistiche non ufficiali, la minoranza italiana conta più di dieci mila persone, ed è una comunità attiva e ben integrata. Accanto alla comunità storica italiana, esiste anche una presenza nuova, di italiani emigrati e stabilitisi in Romania negli ultimi 15 o 20 anni, una nuova ondata di migranti italiani il cui numero raggiunge il migliaio di persone e che si mostra ben integrata nella realtà romena e rispettata nell’ambito di attività svolte, all’interno della quale molti tornano periodicamente in Italia. Da menzionare anche la presenza degli imprenditori italiani, una presenza importante composta da circa 20.000 aziende aative con capitale italiano, disseminate in tutta la Romania, da Botoșani a Slatina, da Timișoara a Constanța. Le due comunità, quella della minoranza italiana e quella degli imprenditori, vivono insieme e collaborano per mantenere e promuovere la lingua, la cultura e le tradizioni dei nostri antenati.

Tra i maggiori successi ottenuti dalla minoranza italiana in Romania è necessario ricordare la reintroduzione della lingua italiana come materia obbligatoria nelle classi di lingua materna, dopo più di 50 anni. Oggi in Romania, la lingua italiana è studiata tanto a livello universitario, ed esistono cattedre di lingua italiana della maggior parte dei centri universitari più importanti del paese, come anche nei licei e nelle scuole primarie, come mostra l’esempio del Liceo Dante Alighieri di Bucarest, dove si studia italiano tanto nelle classi primarie come anche al ginnasio.

La minoranza italiana è molto attiva ed è rappresentata dall’Associazione degli Italiani di Romania – RO.AS.IT. da più di un quarto di secolo, all’interno della quale sono riuniti italiani nativi, romeni con origini italiane ma anche quanti abbiamo una simpatia per la cultura e la lingua italiana. L’Associazione realizza progetti specifici, atti a mantenere in vita le tradizioni e la cultura italiana, collaborando strettamente con le istituzioni dello stato romeno e con quelle dello stato italiano, come l’Ambasciata, l’Istituto Italiano di Cultura, l’Istituto per il Commercio Estero, la Confindustria.

 

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